domenica 19 luglio 2009

"L' immacolata narrazione" - di Pasquale Cosentino

Leggo sul n. 24 di Elpis del 12 aprile scorso, alle pagg. 22-23, un articolo del mio amico e cugino
Armando Vitale, intitolato “Addio Pignari”...“simbolo rappresentativo”, “oggetto di culto”, e ora
di rimpianto.
Fin da subito si può osservare, volendo, uno dei sintomi meno equivocabili di una condizione
“terminale”, in qualsiasi contesto socioculturale, che è proprio la proliferazione degli “oggetti di
culto”. Ma, a parte questo, afferma l'articolo: “...bisognava pensarci prima...la loro sofferenza era evidente...Ma chi doveva pensarci?” E qui, Armando, scrivendo “le amministrazioni comunali che si sono avvicendate nell'ultimo trentennio”, scommette sul fatto che nessuno si accorgerà che sta truccando la risposta. Non solo perché sottrae se stesso a un vaglio cui vorrebbe sottoporre indistintamente tutti gli altri, ma soprattutto perché ricade di nuovo nella tentazione più tipica della sottocultura andreolese: il vezzo perseverante di pontificare, rigorosamente quando ormai è troppo tardi, seguendo uno schemino prestampato, che dovrebbe andar bene per tutti e, soprattutto, evitare di disturbare coloro che, notoriamente, non gradiscono di essere disturbati.

Purtroppo, però, la storia - sia quella grande, sia quella minuscola data a intendere per grande - non solo non offre “nascondigli”, ma neppure ha nulla a che fare con le “buone maniere”, con le cautele “diplomatiche”, le accortezze “strategiche”, e le precauzioni “ecumeniche”. Soprattutto se queste“virtù” sono esercitate con malizia politica, e se chi decide di parlare, scrivere o rendere unatestimonianza, lo fa solo dopo aver attentamente valutato chi sono i suoi potenziali “bersagli”, equanto deve essere stimata pericolosa, sulla base delle esperienze passate, una loro eventuale
reazione.

“Chi doveva pensarci, e quando”? Forse intanto lui (giacché la sofferenza delle due piante “era
evidente”
) che non credo abbia avuto meno tempo degli altri, nell'ultimo trentennio, per cicalare suquestioni politiche locali. E' molto facile, infatti, chiedere ad Armando perché non ha scritto un
articolo sull’argomento un paio d’anni prima. Così come è facile rammentargli due o tre passaggi,
sul tema specifico, di quella storia che egli continua a scambiare con filastrocche languide e
ingenue, sulle quali la censura del regime non ha motivo di abbattersi.

Intanto i Pignari, “simbolo rappresentativo”, non erano nemmeno di proprietà del comune. Fu
l'amministrazione Cosentino ad acquistarli, dalla famiglia Peltrone-Ricci, e poi a potarli,
rivolgendosi (pagando) al più esperto che si potesse trovare in circolazione in quel momento.
Furono poi eliminati gli eucalipti (che forse adesso stanno ricrescendo...anzi ricordo anche le
lamentele di qualche “comunista da ombrellone” a proposito del taglio degli eucalipti...) e si decise
di far finalmente eseguire il progetto esistente per quell'area, visto che i tecnici incaricati la parcella (altro tipico “oggetto di culto”, laico e religioso, locale) l'avevano già incassata.

Sarebbe necessario, a questo punto, aprire una parentesi – sempre con la dovuta precisione rispetto a nomi e cronologia – e tornare di nuovo al discorso sul dissesto, sulle sue premesse e sulla sua gestione. Su come, tanto per esaminare adesso solo questo aspetto, venissero assegnati incarichi di progettazione allegramente, a cazzo di cane, anche se non c'era ormai più una lira, anche se i lavori non si sarebbero poi fatti. E queste parcelle, a differenza di tanti altri debiti incredibili e gravosi, non sfuggirono all'inserimento nella massa passiva. In altre parole, quelle carte non furono soltanto– irresponsabilmente - dimenticate o trascurate. Furono guardate con i soliti occhi, e con la solita logica: le necessità e le urgenze delle tre caste! L'analisi di un pezzo di storia andreolese drammaticamente concreto e reale come il dissesto, nel suo essere stato il momento cruciale del passaggio da una comunità arretrata ma ancora fornita di discrete possibilità, a una comunità in progressivo e inarrestabile declino, e nel suo essere quindi una calamità per il popolo (che vota) e un colpo di fortuna per i furbetti del paesino (che si fanno votare), è potenzialmente ricchissima di informazioni utili per capire tante altre cose della nostra situazione attuale. Non deve essere perciò casuale la cecità selettiva dei liberi docenti di storia andreolese, e la loro insistenza su frivolezze ripetitive e vuote. Peraltro noi questo discorso lo abbiamo ripreso varie volte (l'ultima volta sul blog di Emanuele Codispoti) e, certamente, non mancheranno altre occasioni in futuro: è in queste cose infatti – non nelle filastrocche circolari dei riti e dei miti fondativi del niente – che la ripetizione giova.
Ma torniamo ai Pignari. Se quel lavoro fu eseguito bene o male, se permangono zone d'ombra o lati oscuri nella sua esecuzione, se fu completato o se dopo 9 anni non si è ancora riusciti ad eliminare nemmeno i pali doppi della luce, così come per sapere se è vera o no quella storia del diserbante, o per l'esibizione di qualsiasi documento che attesti che è stato richiesto un consulto a uno o più esperti, o esperito un qualsiasi estremo tentativo al capezzale del moribondo, non dovrebbe essere disagevole rivolgersi all'attuale sindaco, che governa da nove anni e che era uno dei tecnici incaricati per il lavoro ai “pignari”. Per il resto, idee, proposte, proteste, solleciti o denunce si fanno, con serietà, con sacrosanta ma non ecumenica indignazione, e senza false preoccupazioni o ambiguità.
Come si spiega allora questa svista di Armando? Si spiega, e si capisce, a mio avviso, solo se si è
disposti a prendere atto di un fenomeno da tempo sotto gli occhi di tutti in questo paese. La pretesa di scriverne o di riscriverne la storia secondo linee precise, funzionali alle esigenze e ai desideri di determinate caste, gruppi e famiglie. Un gioco abbastanza deprimente e volgare, condotto sulla scacchiera di una memoria addomesticata, con caselle bianche di episodi edificanti da enfatizzare e caselle nere di episodi oscuri da insinuare, essendo rigorosamente, ed esclusivamente, a carico degli eroi nominati i primi, e dei reietti designati i secondi.
Questo orientamento costante e strisciante, persino troppo sfacciato, sarebbe manifesto e palese per tutti (basta dare uno sguardo alla toponomastica, o alle targhe, alle beatificazioni civili e religiose, agli autoproclamati sommi sacerdoti che le organizzano e le attestano con il proprio imprimatur quali fatti fondanti, ai luoghi comuni che si impongono come feticci), se gli andreolesi avessero ancora un briciolo di capacità di vedere. Viceversa alla generale miopia, e a tanto ottenebramento, assieme alla religione del servilismo, dell'opportunismo, e della paura, Elpis contribuisce largamente, fosse pure in ottima fede, con il suo essere divulgazione che non solo non disturba i maggiorenti del paese, ma, al contrario, li aiuta a divertire, commuovere e distrarre il popolo, condizione resa sempre più evidente
dalla sua stessa esistenza non ostacolata in un paese altrimenti “blindato” (taci! Il nemico ti ascolta).
Va da sé che scrivere la “storia” in questo modo, in linea con gli interessi-desideri di una casta, non solo produce una storia falsa, ma soprattutto favorisce, come effetto collaterale, una sorta di
rapimento mistico per un passato fine a se stesso, da non convertire mai in conoscenza, da
contemplare liberi dal peso di doverlo interrogare per eliminare oscurità, fantasmi, e servitù che
ancora abbiamo sulle spalle. In altre parole: un passato che non serve a nessuno, se non a coloro che non avendo mai avuto il problema di sentir suonare mezzogiorno, possono dedicarsi alla propria apoteosi e ai propri giochi di ruolo e di potere, gratificanti e vantaggiosi. Con il preciso interesse che tutto si conservi così come sembra essere sempre stato. Fino alla fine, ormai vicina.

Così si spiega anche l'insistenza e l'enfasi sul dialetto, “lingua chiusa, povera e insicura” - come spiegano da sempre fior di studiosi e di recente quelli dell'Università di Milano cui appartiene questo corsivo
- “che si vieta di oltrepassare i confini del luogo comune perché nella ricchezza e nella complessità del mondo teme di snaturarsi e morire...adatta all'iterazione di ogni filastrocca che voglia essere rumorosa quanto le è necessario per nascondere la propria insignificanza, la propria acquietante e servile semplificazione del mondo...”

Usando le stesse tracce logiche non è difficile comprendere perché un'argomentazione del tenore diquesta mia viene immediatamente considerata “politica”, mentre non si vuole capire che
accarezzare la nostra triste realtà solo nel senso del pelo, e dire solo ciò che può essere tollerato e
non ciò che deve essere detto, è politica tout court, anche se politica deteriore e rovesciata,
rovesciata come tutte le istanze dello spirito in questo paese.
Ma torniamo a noi, e all'articolo in questione: scrivere “gli amministratori”, fissare la cronologia
con un generico “nell’ultimo trentennio”, significa non volersi assumere la responsabilità di dire unbel niente. Rispetto alla politica, il volgo ha certo bisogno di credere che “tutti sono uguali” per
poter rimanere tranquillo nella sua colpevole inerzia, per poter continuare a credere che sia
inevitabile che le solite eminenze grigie confezionino a tavolino il (loro) futuro. Ma gli
amministratori hanno un volto, per ogni periodo, un nome e un cognome, un bilancio personale da presentare. Ogni attività umana, e ogni umana relazione, persino a Sant’Andrea, si basa sulla
responsabilità, che è individuale come un carico penale. Ognuno si assume le proprie, quando parla, quando scrive, quando agisce, come persona, come singolo, come amministratore, come cittadino, come coniuge, come lavoratore, come genitore, ecc. Ogni deresponsabilizzazione è una truffa, verso se stessi e verso gli altri. Non è il destino, non è Dio, non sono le consuetudini e le abitudini che scrivono la storia, piccola e grande. Le generalizzazioni, accompagnate dalle filastrocche, servono alle sottoculture assolutorie. Quando non si può individuare il comodo capro espiatorio, allora bisogna pareggiare la partita: tutti diventano responsabili, perché nessuno sia responsabile.

Ma c'è di più: l'infelice espressione “in tutt'altre faccende affaccendate”, con leggerezza riferita alle amministrazioni dell'ultimo trentennio, è semplicemente ingiuriosa nei confronti di tutti quelli che hanno impegnato gratuitamente parte della propria vita, tra mille ostacoli, per cercare di dare un'occasione a questo paese, che si ritrovano allegramente accomunati e associati a chi, ormai da più generazioni, si tramanda posizioni di privilegio e di tornaconto. Possiamo fare una banca dati-se Armando ha voglia di fare un po' di storia locale seria - senza trucchi, con i nomi e i cognomi dell'ultimo trentennio e oltre, e verificare, nome per nome, in quale “faccenda” ciascuno è statoaffaccendato: chi ha provocato i disastri finanziari e chi li ha ricuciti; chi ha fronteggiato ognidifficoltà e chi è scappato un attimo prima del diluvio; chi ha fatto politica dopo il lavoro e chi dipolitica ha sempre vissuto; chi si è battuto per ciò che era giusto, contro ogni convenienza e
interesse forte, e chi si è riempito la bocca (e il proprio conto in banca) con i frasari della politica
politicante; chi ha speso la propria esistenza per gli altri e chi ha edificato il proprio mausoleo; chi
ha cercato di lavorare per la gente e chi alla gente lo ha sempre messo in quel posto,
indipendentemente da quanto la gente può aver compreso di tutto questo. Magari cominciando col pubblicare su Elpis, in luogo dei resoconti del rimpianto tardivo e della memoria struggente, quellelettere e quei documenti che raccontano, su alcune faccende particolari, l'altra parte della storia,quella da occultare. Documenti che Armando possiede da tempo, ma che tiene ben nascosti, senza scrupolo che non ”resti memoria negli annali della storia di Sant'Andrea” come viceversa scrive (ultimo capoverso) quando sta facendo storia per finta, e senza aver mai spiegato chi gli ha concesso il privilegio di stabilire quello che la gente normale deve o non deve sapere.
Mentre, avvicinando lo sguardo, potrei suggerire ad Armando (oltre a un prossimo articolo che
potrebbe riguardare, invece di un solo pino, le migliaia di ulivi secolari di Taverna e Unusa, sempre perché ”resti memoria” ecc. ecc...) anche un argomento su cui insistere in chiave di prevenzione, per evitargli l'imbarazzo di dover pontificare qualora fosse troppo tardi: l'allora minoranza di Civitas, dopo il crollo di una scuola elementare e la morte di 21 bambini in Molise, aveva invitato il sindaco a dare incarico per il monitoraggio delle scuole. Centinaia di comuni si erano attivati in tempo utile per ottenere a riguardo i contributi disponibili ai sensi della Legge 289/02. La richiesta di Civitas fatta a voce in un Consiglio comunale, per iscritto nel 2002, e ribadita con un ulteriore interrogazione dopo due anni, ottenne dal sindaco le sue solite quattro risate, e nessuna risposta sui contributi, che, evidentemente, non si è ricordato di chiedere. Questa storia è raccontata nel dettaglio in Parrasuni del 30 ottobre 2004, p. 7. Ebbene, dopo altri cinque anni, dopo il terremoto dell'Abruzzo, a Sant’Andrea si scopre che è pericolante il tetto della ex scuola materna (oggi scuola media) che fino a pochi giorni fa era regolarmente frequentata, anche se risultano spesi da poco, proprio su quel tetto, almeno quei duecento milioni di lire (perso il resto) ereditati dall'amministrazione precedente. Ma c'è di più: nella vecchia scuola media, ormai ridotta ad ammasso di lamiere arrugginite e vetri rotti, abbandonata come scuola perché inagibile, i ragazzi hanno accesso e giocano tutti i giorni; i fondi dell'alluvione sono stati in gran parte utilizzati per collocare arredo urbano (scale, rivestimenti, stradelle, recinzioni, aiuole, piazzette, pavimentazioni, lampioni) secondo un criterio di cui avrà beneficiato qualche privato, ma non la messa in sicurezza dell'intero paese; non esiste una vera, qualificata struttura, nè un Piano comunale (credo obbligatorio) di protezione civile, a dispetto di ogni parata e inaugurazione di sede. E se qualcuno, nel nostro territorio ad altissimo rischio – il vostro Dio non voglia - si facesse male per una di queste cose?
Diremmo tutti che lo sapevamo, che “era evidente”? La responsabilità sarebbe degli amministratori “dell'ultimo trentennio”?

La verità è che dopo il nulla urlante, arrogante, spartitorio, e ricattatorio, dei primi cinque anni di
Primavera Andreolese, le occasioni perse, il tessuto sociale mortificato, le scuole che chiudono, nel silenzio, una dopo l'altra (dalla materna al professionale), venne diffusa ad arte, tra il volgo
osservante e obbediente, la favoletta della “ripresa”, del “ritorno” a uno slancio che non c'era mai
stato. E scadranno, il prossimo anno, altri cinque anni di nulla urlante, arrogante, spartitorio, e
ricattatorio. Con l'aggravante, rispetto al primo quinquennio, che non c'è nessuna opposizione
disposta almeno ad aprire gli occhi, a raccontare. Tra i disastri di questi cinque anni c'è la morte del pino. Per overdose di diserbante, per negligenza e dappocaggine amministrativa, oppure per
semplice non aver voluto tentare quello che si tenta con ogni malato: la consultazione di un esperto, che sarebbe costato la metà di una delle tante feste della Congrega del Rosario. Qualcuno qua e là lo ha segnalato. Per ristabilire l'ordine dell'informazione di regime ci voleva Elpis, ed Armando, uomo di centro, ex di Civitas, a distribuire le colpe un po' a tutti e quindi a nessuno.
E invece la morte del pino rimane una delle tante (e nemmeno la più grave) responsabilità esclusiva di Primavera Andreolese, e dei suoi impuniti colonnelli. La storia, con Elpis o senza, è questa.
Sant'Andrea non è allo sbando perché è crollato, questa volta, un albero. Sant'Andrea è morto - è
diventato un formicaio indiscutibilmente comune e concorde, sovraffollato di storie assurde che
basta ripetere sempre uguali e abbastanza a lungo perché tutti si convincano che sono vere e giuste -perché è morta da tempo la capacità di vedere le cose e giudicarle secondo la logica evangelica del sì quando è sì, e del no quando è no. Nessun pifferaio magico, nessun falso profeta, nessuna festa e nessuna ciaramella, nessuna rievocazione consolatoria, nessuna miseria narrativa odorosa di potere, può salvarlo, tra un funerale e l'altro. Tutte queste cose, al contrario, certificano e aggravano la fase terminale di una malattia senza rimedio. I più nemmeno si rendono conto della situazione, o la vivono come normale. Alcuni vengono solo per una decina di giorni, a fare un bagno, se trovano ancora un pezzo di spiaggia libera e se il depuratore lo permette, e quindi non possono capire. Altri, stanziali, si preoccupano dei favori clientelari che possono ricevere. I rimanenti se ne vanno, pur di allontanarsi da un ambiente in cui non sono possibili che atti di fedeltà credula e servile.

Sartre denunciava, più di mezzo secolo fa, le culture irrigidite e pietrificate, nelle quali emerge la
pretesa di adeguare a priori la realtà a uno schema dottrinale, la violenza sulla verità e
sull'esperienza concreta, il servilismo che trascura i particolari imbarazzanti e semplifica
grossolanamente i dati. Chiamava tutto questo “stalinismo” e “catechismo”. A Sant'Andrea siamo
fermi lì, agli anni 50, allo stalinismo e al catechismo, meglio ancora se alleati. Certo nella loro
versione caricaturale, di paese. Ma ha comunque un sapore sottilmente beffardo, amarognolo,
considerare che “Elpis” (meglio: Elpìs) in greco significa “speranza”. Chi vive sperando – afferma
il protagonista di “Mediterraneo”, capolavoro premio Oscar di Salvatores – muore cacando.

19 luglio 2009-Pasquale Cosentino

5 commenti:

Unknown ha detto...

..."si sa che la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio,
si sa che la gente dà buoni consigli
se non può più dare cattivo esempio"
La strofa non è farina del mio sacco ma la condivido!
Cosiderato che il futuro di S.Andrea è nella "testa" degli andreolesi (e che pochi la sanno far funzionare per il bene collettivo) ci sono ottime possibilità di ripresa ... "e tuttu su margiu"!
Il nostro "destino" è legato al Pino: o si cambia o si muore!

Manu ha detto...

Beh, vista l'attuale situazione io avrei scritto "o si cambia o si resuscita..."

Manu ha detto...

...no, mi sa che nella fretta ho scritto male... vabbè, sti cazzi, tanto chi doveva capire ha capito ;)

Mario Monteverdi ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Mario Monteverdi ha detto...

a pasquà... e meno male che Armando ti è amico e cugino, che se no...